Consiglio di Stato sez. V, 19/07/2024, (ud. 27/06/2024, dep. 19/07/2024), n.6504
L’oggetto della controversia è una procedura di appalto pubblico bandita dalla Regione Basilicata per lavori di miglioramento dei canali irrigui consortili, finanziata con risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). L’appalto, assegnato al raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) “Mancusi – Ma.”, è stato impugnato dall’impresa seconda classificata, la quale ha contestato il punteggio assegnato dal seggio di gara all’offerta tecnica dell’aggiudicataria.
L’odierna appellante ha presentato un ricorso dinanzi al TAR Basilicata, lamentando l’illegittimità dei punteggi assegnati al RTI aggiudicatario. Tuttavia, il TAR ha dichiarato inammissibile il ricorso, sostenendo che le censure sollevate erano di natura strettamente tecnica e non presentavano elementi di manifesta illogicità o contraddittorietà, pertanto non rientranti nel perimetro del sindacato giurisdizionale. In aggiunta, il TAR ha ravvisato un’ulteriore ragione di inammissibilità nel mancato superamento della “prova di resistenza”, ossia la dimostrazione che, qualora le censure fossero state accolte, l’impresa appellante avrebbe ottenuto l’aggiudicazione dell’appalto.
L’appellante ha impugnato la sentenza del TAR dinanzi al Consiglio di Stato, formulando sette motivi di appello. Tuttavia, il Collegio ha ritenuto di non dover trattare il primo e il settimo motivo, in quanto il rigetto degli altri motivi, relativi alla mancata prova di resistenza, era sufficiente a sostenere la decisione del TAR.
La questione della “prova di resistenza” risulta centrale nel rigetto dell’appello. Secondo il Consiglio di Stato, l’appellante non ha dimostrato in modo concreto che l’accoglimento delle sue censure avrebbe condotto a un risultato utile, ossia all’aggiudicazione dell’appalto in suo favore. Le critiche sollevate nei confronti dei punteggi attribuiti al RTI aggiudicatario erano formulate in termini generici e non erano finalizzate a ottenere l’azzeramento di tali punteggi, ma solo una loro riduzione. Tuttavia, tale riduzione non sarebbe stata sufficiente a superare il margine di punteggio che separava le due offerte.
In materia di appalti pubblici, la giurisprudenza ha consolidato il principio secondo cui il ricorrente deve dimostrare la concreta utilità che deriverebbe dall’accoglimento del ricorso, dimostrando che, se le operazioni di gara fossero state corrette, egli avrebbe ottenuto l’aggiudicazione. Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ha evidenziato che l’appellante non ha fornito una tale dimostrazione, limitandosi a formulazioni generiche senza indicare quale sarebbe stato il punteggio corretto da attribuire all’offerta rivale.
La decisione del Consiglio di Stato di rigettare l’appello si fonda quindi su una rigorosa applicazione del principio della concretezza dell’interesse al ricorso. La mancanza di una prova predittiva chiara e specifica sull’incidenza delle censure sul risultato finale della gara ha condotto all’inammissibilità del ricorso. Inoltre, il Collegio ha sottolineato la natura discrezionale delle valutazioni tecniche della commissione di gara, il cui sindacato giurisdizionale è limitato alla verifica di eventuali manifeste irregolarità, non ravvisate nel caso in esame.
Il tema di diritto trattato nella sentenza in esame ruota intorno al principio della “prova di resistenza” e alle sue applicazioni nel contesto delle gare d’appalto pubblico. Si tratta di una questione complessa che coinvolge più aspetti del diritto amministrativo, in particolare il controllo giurisdizionale sulle valutazioni tecniche effettuate dalla commissione di gara e le condizioni per l’ammissibilità di un ricorso.
La prova di resistenza e l’interesse al ricorso
Nel diritto amministrativo, la prova di resistenza rappresenta un concetto fondamentale per stabilire l’interesse ad agire del ricorrente. Secondo l’art. 100 del codice di procedura civile, il ricorrente deve dimostrare di avere un interesse attuale e concreto alla rimozione di un atto amministrativo, nel senso che l’annullamento dello stesso deve procurargli un’effettiva utilità. In altre parole, non basta sollevare delle censure di carattere formale o tecnico; occorre dimostrare che l’annullamento di un determinato atto (ad esempio, l’aggiudicazione di un appalto a un altro concorrente) comporterebbe un beneficio tangibile per il ricorrente, come l’assegnazione dell’appalto stesso.
Nelle procedure di appalto pubblico, la dimostrazione della prova di resistenza assume una rilevanza cruciale quando il ricorrente contesta la valutazione dell’offerta tecnica o economica. In questi casi, il ricorso non è finalizzato all’esclusione dell’impresa vincitrice o alla rinnovazione della gara, bensì alla revisione dei punteggi attribuiti dalla commissione. Per rendere il ricorso ammissibile, il ricorrente deve dimostrare che, se le sue censure fossero accolte, avrebbe ottenuto un punteggio superiore rispetto a quello dell’aggiudicatario, e quindi l’aggiudicazione stessa.
Nel caso di specie, la parte ricorrente non è riuscita a superare questa soglia. Sebbene abbia contestato la valutazione tecnica dell’offerta dell’aggiudicataria in termini di attribuzione dei punteggi, non ha fornito una quantificazione precisa e predittiva della riduzione di tali punteggi, né ha dimostrato che, qualora le sue censure fossero state accolte, il punteggio della propria offerta avrebbe superato quello dell’aggiudicataria. Tale mancanza di prova ha condotto il TAR prima, e il Consiglio di Stato poi, a dichiarare inammissibile il ricorso.
La discrezionalità tecnica e il sindacato giurisdizionale
Un altro aspetto centrale di questa sentenza riguarda la discrezionalità tecnica della commissione di gara e il relativo sindacato giurisdizionale. Nel contesto degli appalti pubblici, la commissione di gara è chiamata a valutare le offerte tecniche e a decidere quale offerta sia economicamente più vantaggiosa. Tali valutazioni spesso implicano margini di discrezionalità tecnica, soprattutto quando il bando di gara prevede criteri che non si limitano a parametri oggettivi, ma includono considerazioni qualitative.
In queste situazioni, il giudice amministrativo esercita un controllo limitato sulla correttezza delle valutazioni tecniche, potendo sindacare solo su profili di manifesta illogicità, irragionevolezza o contraddittorietà. In altri termini, il giudice non può sostituirsi alla commissione di gara nel merito delle valutazioni, a meno che queste ultime non risultino macroscopicamente infondate.
Nel caso in esame, il TAR ha rilevato che le contestazioni sollevate dall’appellante riguardavano proprio la discrezionalità tecnica della commissione, senza che fossero indicati profili di manifesta illogicità o contraddittorietà. Questa constatazione ha condotto alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso, poiché la parte ricorrente non aveva dimostrato che i punteggi attribuiti alla controparte fossero affetti da tali vizi. Il Consiglio di Stato ha confermato tale interpretazione, sottolineando che il margine di discrezionalità tecnica nelle gare d’appalto esclude un sindacato giurisdizionale sostitutivo delle valutazioni effettuate dalla commissione, se non nei limiti sopra indicati.
Il principio di utilità concreta nelle gare d’appalto
Il caso specifico evidenzia un principio chiave nel diritto degli appalti pubblici: l’annullamento di un atto amministrativo, come l’aggiudicazione di una gara, deve essere collegato a un’utilità concreta per il ricorrente. Questo principio è strettamente connesso alla funzione stessa del ricorso amministrativo, che non è un mero strumento per correggere eventuali irregolarità formali, ma uno strumento finalizzato a tutelare diritti e interessi legittimi lesi.
Nel contesto degli appalti pubblici, ciò significa che la parte che ricorre contro l’aggiudicazione di una gara deve essere in grado di dimostrare che, se le sue contestazioni fossero accolte, essa otterrebbe l’aggiudicazione o, quantomeno, un concreto vantaggio competitivo. In assenza di tale dimostrazione, il ricorso si riduce a una mera azione teorica, priva di concreta incidenza sul risultato della gara, e pertanto deve essere dichiarato inammissibile.
Considerazioni conclusive
L’analisi di questa sentenza del Consiglio di Stato mette in luce l’importanza della prova di resistenza e della concretezza dell’interesse al ricorso nelle controversie relative agli appalti pubblici. Il ricorrente, per ottenere l’annullamento dell’aggiudicazione, deve fornire elementi concreti che dimostrino come, in seguito all’accoglimento delle sue censure, sarebbe risultato vincitore della gara. Questa esigenza riflette un equilibrio tra la tutela dell’interesse pubblico, rappresentato dalla corretta esecuzione degli appalti, e la garanzia dei diritti dei partecipanti alla gara.
Inoltre, il principio della discrezionalità tecnica sottolinea la centralità del ruolo della commissione di gara, il cui giudizio, salvo casi di palese irragionevolezza, non può essere sostituito dal giudice amministrativo. Questo limite al sindacato giurisdizionale conferma la natura specialistica e tecnica delle decisioni assunte nel contesto delle gare d’appalto, riservando al giudice il compito di verificare solo la regolarità formale e la coerenza logica delle valutazioni compiute.
In definitiva, questa sentenza rafforza il rigore con cui i ricorsi devono essere presentati in materia di appalti pubblici, richiedendo una chiara e concreta dimostrazione del pregiudizio subito e della possibilità di un esito diverso della gara, in caso di accoglimento delle censure.